Disposofobia trattata efficacemente con atomoxetina

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 15 ottobre 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

 La disposofobia o disturbo da accumulo o hoarding disorder[1] è una sindrome caratterizzata da una perdurante difficoltà nel separarsi da quanto è in proprio possesso indipendentemente dal suo valore e spesso da un bisogno ineludibile di acquisire e conservare gli oggetti più vari: da pezzi da collezione a cianfrusaglie, da raccolte di libri, giornali, mobili, soprammobili, abiti, borse, beni di consumo, fino a doppioni multipli e serie ridondanti di suppellettili vecchie e rotte, di aggeggi, accessori e dispositivi d’uso tecnico o domestico, magari fuori uso. In alcuni casi prevale la tendenza ad acquisire[2], in altri il bisogno assoluto di conservare[3], ma nella massima parte dei casi l’accumulo è indiscriminato, riflettendo l’incapacità di buttare qualcosa per effetto del giudizio di “inutile” o “insignificante”. Il risultato è l’occupazione degli spazi vitali, con la frequente perdita delle funzionalità abitative di soggiorno, camere da letto, bagno e cucina, spesso convertiti in ripostigli o depositi. Tale condizione può fortemente incidere sul regime di vita, limitando l’igiene ambientale e personale, e giungendo a volte a interferire con l’alimentazione e il sonno.

Se si prospetta concretamente una forma di allontanamento o eliminazione di quanto accumulato, le persone affette sperimentano stati anche gravi di ansia, malessere e preoccupazione[4].

La difficoltà a separarsi include l’impossibilità di vendere, donare, riciclare, e assume in genere le caratteristiche dell’impossibilità di scartare qualcosa, di eliminarla, gettarla via anche se palesemente inutile, come biglietti usati di trasporti pubblici, vecchie liste della spesa, appunti su foglietti “post-it” relativi ad incombenze già evase da anni. La giustificazione cosciente spesso proposta allo psichiatra del bisogno di conservare anche il più piccolo frammento cartaceo con una traccia scritta, è il timore di perdere informazioni importanti. Una preoccupazione, questa, che rimanda all’iperattività del circuito alla base del processo psichico di rilevazione dell’errore tipica del disturbo ossessivo-compulsivo: la mancata eliminazione sarebbe la conseguenza di un atteggiamento prudente, dettato dal dubbio insinuato da un rischio, la cui base inconscia è l’impropria attivazione di un sistema di neuroni associati al rilievo di qualcosa di erroneo.

Il grado di consapevolezza in questi pazienti può variare, così come il tono dell’umore, determinando apparenze differenti all’intervista diagnostica. Le persone che appartengono al versante depressivo della gamma sono laconiche, rassegnate e più spesso con un insight, ossia con una coscienza di malattia, maggiore. Le persone che appartengono al versante opposto della gamma sono loquaci interpreti delle proprie razionalizzazioni, perorando la causa delle scelte conservative con argomenti speciosi e spesso inconsistenti, ma reiterati e appassionatamente interpretati, circa l’utilità probabile in futuro, il valore estetico e perfino l’importanza culturale di attribuire valore a cose svalutate o disprezzate dalla maggioranza. Naturalmente, nessuna di queste argomentazioni spiega perché accumularle in disordine in un evidente regime di negligenza e trascuratezza.

La prevalenza, quasi tre volte maggiore nella fascia di età dai 55 ai 94 anni rispetto a quella dai 34 ai 44 anni e maggiore negli uomini rispetto alle donne, in contrasto con i campioni clinici[5], è stata complessivamente stimata in Europa e negli USA del 2-6%.

C’è il rischio di sovrastimare il numero delle persone affette a causa di falsi positivi dovuti a diagnosi basate su singole interviste e/o su una scarsa valutazione di alcuni aspetti. Persone che vivono sole o isolate, per ragioni psicologiche che generano inibizione, possono trascurarsi al punto di non riordinare e non gettare via più nulla, finendo per legarsi a tutto ciò che costituisce parte del quotidiano, anche se ingombra la casa e gli spazi vitali. In tali casi, manca la spinta all’acquisizione e, spesso, è sufficiente un aiuto materiale a riordinare, disfarsi del superfluo e magari vendere ciò che è vendibile, perché si modifichi radicalmente la condizione esistenziale e, soprattutto, l’atteggiamento psicologico della persona che, al contrario, nella disposofobia non muta.

La disposofobia non deve essere confusa con forme di collezionismo esasperato, che possono giungere a limitare gli spazi abitativi ma riguardano ben definite categorie di oggetti (più spesso una sola categoria), non incidono sulle abitudini di vita e sono caratterizzate dal valore di relazione implicito nella collezione: si vuol mostrarla, se ne è orgogliosi, le si attribuisce un valore venale, e per cifre ritenute congrue (generalmente elevate) si è disposti a venderla.

All’estremo opposto della gamma delle somiglianze, il disturbo deve essere distinto da forme di demenza e di psicosi espresse in persone che vivono da sole e, a rigore, anche dal disturbo ossessivo-compulsivo[6] e da conseguenze inibitorie di stati depressivi gravi, nei quali, però, manca la tendenza ad acquisire e l’opposizione al disfarsi del superfluo proposta da altri.

L’eziopatogenesi non è nota, tuttavia si ritiene importante la componente genetica, sia per la familiarità del disturbo sia per quanto emerso dagli studi sui gemelli. Infatti, circa la metà delle persone che manifestano accumulo patologico possono indicare almeno un familiare che presenta la stessa condotta, e negli studi sui gemelli è emerso che circa il 50% della variabilità è dovuta ad altri fattori genetici.

Come per altre sindromi psicopatologiche la cui autonomia diagnostica dipende interamente dalla caratterizzazione comportamentale, non vi è accordo sul fatto che costituisca un disturbo a sé stante e non rappresenti piuttosto una sorta di variante fenotipica di condizioni neurofunzionali che più spesso danno luogo alle manifestazioni del disturbo ossessivo-compulsivo. In proposito, si deve anche notare la carenza di studi che abbiano realmente approfondito la dimensione intrapsichica di questi pazienti, analizzandone la fenomenica affettiva e cognitiva, così da fornire strumenti efficaci per definire il valore delle somiglianze e delle differenze, almeno in chiave psicologica.

L’approccio psicoterapeutico si basa più sui paradigmi dei metodi impiegati e sulle risorse degli psicoterapeuti che sull’azione diretta su elementi target, individuati quali nodi responsabili della psicopatologia.

Non esiste una terapia farmacologica specifica del disturbo di accumulo e spesso, per ridurre le manifestazioni principali, si impiegano gli antidepressivi SSRI ed altri farmaci prescritti per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo.

Nonostante vari studi abbiano suggerito che l’alterazione dell’attenzione e l’impulsività-compulsività possano rappresentare due dimensioni nucleari della disposofobia, soltanto un numero molto esiguo di verifiche sperimentali ha valutato l’efficacia di farmaci indicati nel trattamento del disturbo dell’attenzione con iperattività (ADHD, da attention deficit hyperactivity disorder). Giacomo Grassi e colleghi dell’Università di Firenze[7], per verificare l’efficacia dell’atomoxetina nel disturbo da accumulo, hanno condotto uno studio ripartito in due fasi: una sperimentazione preclinica in un modello animale di comportamento simil-compulsivo; una sperimentazione clinica in pazienti affetti da disposofobia.

(Grassi G., et al., Atomoxetine for hoarding disorder: A pre-clinical and clinical investigation. Journal of Psychiatric Research 83: 240-248, 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: University of Florence, Department of Neuroscience, Psychology, Drug Research and Child Health, Neurofarba, Firenze (Italia); Institute of Neuroscience, Firenze (Italia); Department of Neuroscience, Psychology, Drug Research and Child Health, Neurofarba, Pharmacology and Toxicology Section, University of Florence, Firenze (Italia); University of Siena, Department of Molecular and Developmental Medicine, Siena (Italia).

L’ipotesi di lavoro di Grassi e colleghi consisteva in un’azione dell’atomoxetina, farmaco impiegato nel trattamento dell’ADHD, sulle reti di neuroni preposti al controllo inibitorio e alla fisiologia dell’attenzione, tale da migliorare il funzionamento alterato che si suppone alla base delle manifestazioni sintomatologiche. Per verificare questa ipotesi, come si è già accennato, i ricercatori hanno preso le mosse da un’indagine su un modello murino di condotte simil-compulsive.

Sfruttando il marble burying test, sono stati sottoposti a verifica gli effetti di somministrazioni acute di atomoxetina nei topi: si è rilevata la riduzione significativa di comportamenti ritenuti equivalenti a quelli compulsivi umani, senza diminuzione di efficienza delle prestazioni locomotorie, della coordinazione e dei comportamenti esplorativi.

Il confronto di efficacia fra la fluoxetina (Prozac) e l’atomoxetina ha mostrato un’influenza sostanzialmente equivalente sul marble burying test, ma il paragone circa le azioni corrispondenti ad effetti collaterali ha mostrato la superiorità della molecola posta al vaglio sperimentale, perché alle dosi efficaci di fluoxetina si rilevava una parziale compromissione dell’attività locomotoria e dei comportamenti esplorativi.

Per il trial clinico sono stati selezionati 12 pazienti, e 11 hanno completato un classico open trial con atomoxetina a dose flessibile (40-80 mg) per 12 settimane.

Gli effetti sono stati rilevati mediante un metodo di misura standard negli USA, ossia la UCLA Hoarding Severity Scale (UCLA-HSS). Al termine dei circa tre mesi di somministrazione del farmaco, il punteggio medio della UCLA-HSS per l’intero gruppo si è ridotto del 41.3% (p = 0003). Sei pazienti sono stati classificati come pienamente rispondenti al farmaco (full responders), con una riduzione sintomatica media del 57.2%; altri tre pazienti sono stati classificati come parzialmente rispondenti al farmaco, con una riduzione sintomatica media del 27.3%.

I sintomi dovuti a difetto dell’attenzione e impulsività hanno fatto registrare una significativa riduzione del punteggio medio del 18.5% dal livello di base a quello terminale (F (1,9) = 20.9, p = 0.0013).

Il miglioramento nell’ambito delle manifestazioni cliniche legate al disturbo da accumulo era strettamente legato alla riduzione della disabilità relazionale che presentano in genere questi pazienti e al miglioramento del loro funzionamento globale.

Il complesso dei dati emersi da questo studio supporta e suggerisce il prosieguo delle valutazioni mediante trials clinici controllati per un impiego dell’atomoxetina nella disposofobia.

 

L’autrice della nota, che ringrazia il professor Rossi e la dottoressa Poggi per correzioni e integrazioni al manoscritto e la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza, invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-15 ottobre 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Ha ricevuto anche altre denominazioni: accumulo patologico seriale, sillogomania, accaparramento compulsivo o mentalità Messie. Il termine “accaparramento” ci sembra poco adeguato, perché raramente le persone affette si comportano in senso stretto da accaparratori.

[2] L’impulso all’acquisizione può essere così intenso da indurre a rubare (condotta erroneamente attribuita a cleptomania) o spendere cifre eccessive o indebitarsi per acquistare cose quanto meno superflue.

[3] Quasi sempre senza utilizzare, ma l’utilizzo può essere un impegno per il futuro e un così un vincolo che preclude la possibilità di disfarsene.

[4] Questa caratteristica corrisponde al “Criterion B” della diagnosi del DSM-5 (Cfr. p. 247 della fifth edition, 2013), essendo il “Criterion A” incluso negli elementi della nostra descrizione introduttiva. Per una bibliografia dettagliata delle fonti si può scrivere all’indirizzo brain@brainmindlife.org.

[5] La discrepanza, fra le indagini epidemiologiche che registrano una prevalenza nel sesso maschile e i campioni clinici che registrano un numero più elevato di donne, può essere in parte spiegata con l’inclusione erronea, in questi ultimi, di casi di eccitazione maniacale (più spesso nelle donne espressa con episodi di acquisti massicci di indumenti ed oggetti, poi seguiti da depressione che compromette l’eliminazione); e di casi in passato definiti di “shopping compulsivo”, caratterizzati da acquisto di borse, scarpe e vestiti fino all’inverosimile, con conseguente accumulo.

[6] Le differenze sono numerose. Ci limitiamo ad osservare che se nel disturbo ossessivo-compulsivo si verifica accumulo, questo non è mai indiscriminato ed è dovuto più spesso al rinvio di operazioni di lavaggio, ripulitura, riordino od altro, che richiederebbero tempo ed energie non disponibili; manca l’acquisizione compulsiva; talvolta un accumulo disordinato può verificarsi in conseguenza di fatti ricollegabili al contenuto di timori ossessivi, ma non presenta i caratteri del legame indistinto per quanto è stato accumulato e un aiuto per risolvere i problemi che bloccano l’eliminazione è sovente ben accetto.

[7] E con Lorenzo Righi dell’Università di Siena.